L’agricoltura deve tornare al centro del dibattito politico

Quando pensiamo all’Unione europea, l’istituzione politica a cui abbiamo dato vita insieme ad altri paesi e via via cresciuta fino a coprire tutto il territorio continentale (anche se con qualche difficoltà), non sempre dimostriamo di avere capito che cosa sia effettivamente diventata.


Oltre ad espandersi sul piano territoriale, l’Unione ha assunto un ruolo crescente, passando dall’economia alla finanza, di cui la moneta unica è espressione tangibile; la tutela della concorrenza si è estesa alle politiche agricole, ai trasporti, all’ambiente e alla difesa dei confini, andando oltre gli interessi nazionali. Il fatto che sia divenuta una sorta di “super-stato” continentale non deve però trarre in inganno, perché le regole applicate possono essere diverse da quelle degli stati che la compongono. In questo senso va letta la sostanziale continuità con il passato, dopo l’ultima tornata elettorale, con la nuova configurazione del Parlamento di Strasburgo.

A differenza di quanto sarebbe potuto avvenire nel nostro Paese, più sensibile ai mutamenti d’opinione, la presidenza del Parlamento e della Commissione europea è stata nuovamente attribuita, rispettivamente, a Roberta Metsola e ad Ursula Von Der Leyen, all’insegna della continuità con il passato. È interessante il fatto che proprio quest’ultima, all’apertura della votazione da parte del Parlamento, si sia affrettata a sottolineare che i recenti interventi in materia di politiche agricole e ambientali non si fermeranno e l’attività del governo europeo continuerà a seguire la strada intrapresa nella precedente legislatura. Un messaggio accolto con speranza dagli agricoltori europei, ma senza eccessive concessioni alle istanze della piazza, perché in Europa i movimenti d’opinione contano sì, ma nei limiti istituzionali: spetta sempre al Parlamento definire le scelte e spetta alla Commissione metterle in pratica.


Oltre all’esempio di come si può governare in democrazia in presenza di voci contrarie, l’atteggiamento dell’Europa ci insegna a non sottovalutare la portata delle decisioni già prese, in particolare sul Green Deal. Questo programma è stato impostato sulla base di ideologie ambientaliste che hanno ancora forte influenza sulla politica comunitaria: senza i 40 voti dei “verdi” la rielezione dei vertici comunitaria sarebbe stata in pericolo, con una maggioranza molto eterogenea e discorde, che ha espresso altrettanti voti contrari.


Il messaggio portato dalle urne – maggiore attenzione agli interessi nazionali – dovrà essere certamente ascoltato, ma non ha modificato la linea di governo europeo: evidentemente non si vuole tornare indietro rispetto al Green Deal, anche se questo scaturisce da un’idea di tutela ambientale forse superata. L’atteggiamento dominante, come percezione, vede i processi agricoli come “ambientalmente dannosi”, senza considerare che ogni pagliuzza è un serbatoio di anidride carbonica che non ritorna in atmosfera: si guarda solo ai gas serra dispersi durante il processo produttivo, ma non a quelli immobilizzati nei prodotti vegetali.


Il bilancio del carbonio viene stravolto considerando l’agricoltura come un’alternativa (negativa) alla natura: ma anche strade, città e stabilimenti industriali hanno occupato spazi sottratti alla natura e non bastano le “pareti verdi” (in cui si coltivano, peraltro, piante non alimentari), a renderle sostenibili.
Rispetto all’industria e ad altre attività economiche e umane, che producono sostanze responsabili dell’effetto serra, e quindi del cambiamento climatico, agricoltura e selvicoltura hanno un bilancio negativo, nel senso che producono meno anidride carbonica di quanta ne consumano. Un messaggio che la Confederazione non manca mai di diffondere, attraverso la sua rappresentanza europea (Ceettar) e che è stato finora ignorato per motivi puramente ideologici.

Le politiche comunitarie scaturite dal Green Deal continuano nel loro cammino: le norme sul ripristino degli ambienti naturali tendono a prendere il posto delle coltivazioni, ancora una volta giudicate ambientalmente dannose, ma senza toccare le altre attività produttive, gli insediamenti e le infrastrutture. Per quanto prive di una solida base scientifica, queste asserzioni sono state accettate in cambio dei contributi pubblici al settore agricolo: ma a forza di tagli e riduzioni di bilancio, gli impegni richiesti dalla Pac agli agricoltori costano oggi assai di più di quanto vengano effettivamente compensati. Considerando il pragmatismo europeo, non c’è da attendersi un cambio di tendenza e i programmi già varati dovranno comunque essere completati, anche se non avranno effetti tangibili sul clima. Da un lato, perché il programma di rinaturalizzazione cerca di combattere proprio l’unica attività economica che sequestra più carbonio di quanto ne emetta; dall’altro, per l’esiguità delle superfici coinvolte rispetto a quella globalmente destinata dall’agricoltura.


È proprio a partire dall’Italia – Paese simbolo della qualità alimentare – che bisogna portare avanti un discorso interdisciplinare per ricondurre l’agricoltura al centro del dibattito, sul piano scientifico
e politico. Gli agromeccanici devono esserne protagonisti. Il nostro modello agricolo, con la sua varietà di colture e di soggetti coinvolti, rappresenta un punto di riferimento per una gestione del territorio a misura d’uomo: cerchiamo di sostenerlo tutti insieme.
L’agricoltura deve tornare al centro del dibattito politico.


Gianni Dalla Bernardina
Presidente CAI Agromec